Cento anni di storia - Baschiblu Raduno 2000

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Di Angelo De Murtas da "La Nuova" (Nuova sardegna)
In quella lunga stagione di sangue e di terrore
spunta il mito di Graziano Mesina
Nell’estate del 1966 la Sardegna fu scossa , una volta di più, dal ciclico riesplodere  della criminalità. Di nuovo, in realtà, non vi era tanto la frequenza dei fatti criminali, quanto la consapevolezza della complessiva gravità del fenomeno, suscitata da alcuni episodi nei quali si era manifestata una particolare ferocia; due pastori assassinati a Ruinas, un altro a Nughedu San Nicolò e uno nelle campagne di Osilo, ad Allai un allevatore fu ucciso insieme al figlio quattordicenne del quale fu bruciato il corpo, un possidente di Santulussurgiu sequestrato e subito ucciso, altri due omicidi, infine, nella piana di Ottana e a Onifai. Alle uccisioni si aggiungevano i furti di bestiame, che in quegli anni erano diventati pratica frequentissima: Le cose non erano andate meglio nei due o tre anni precedenti. Il presidente della Regione Paolo Dettori, in una relazione sui fenomeni di criminalità tenuta al Consiglio regionale, dovette fare i conti di quella lunga stagione di sangue. Disse, secondo il resoconto che ne fece “La Nuova Sardegna”: “Nei primi otto mesi del 1966 si sono avuti in Sardegna 17 omicidi a fronte dei 29 commessi in tutto il 1965, dei 23 del 1964 e dei 42 del 1963. Dei 27 omicidi di quest’anno, 11 sono stati commessi nella provincia di Nuoro, 9 nella provincia di Cagliari e 7 nella provincia di Sassari. Sempre in questi otto mesi, si sono avuti 8 sequestri di persona, a fronte dei 6 del 1965 e dei 4 del 1964; 2 sono stati commessi a Cagliari, 5 a Nuoro e uno, quello dell’ingegner Palazzini, che ebbe tanta risonanza anche sulla stampa nazionale, nella provincia di Sassari. Le estorsioni denunciate sono 4: 2 nella provincia di Nuoro e due nella provincia di Cagliari. Dei 9 omicidi denunciati nella provincia di Cagliari, 7 sono stati commessi fra il 24 luglio e il 5 agosto; dei 7 denunciati nella Provincia di Sassari, 3 sono stati commessi in agosto; degli undici nella provincia di Nuoro, sono stati commessi nei mesi di luglio e di agosto. I delitti di abigeato continuano ad avere un posto notevole nei dati sulla delinquenza in Sardegna; nei primi otto mesi dell’anno ne sono stati denunciati 366, a fronte dei 684 del 1963, dei 691 del 1964 e dei 618 del 1965, e i loro autori sono rimasti per la gran parte sconosciuti, anche se il bestiame rubato è stato spesso interamente recuperato. Anche se non sempre, può dirsi con assoluta certezza che nell’abigeato, e in genere nelle condizioni nelle quali nella nostra isola si svolge l’attività pastorale, sta la prima radice e la prima spiegazione del fenomeno del banditismo”.
Nella sua relazione Dettori formulò un’ipotesi singolarmente lucida sulle cause del fenomeno, tutte - disse - “riconducibili all’ambiente, al tipo di civiltà, al tipo di cultura dominante in molte zone della Sardegna, che va ora lentamente modificandosi, ma troppo lentamente perché non siano accentuati gli squilibri e non appaiano più stridenti i contrasti tra un’economia e una società ancora arretrate e in un certo modo primitive, e, un’economia e una società che, sia pure parzialmente, non soltanto hanno appreso quali modelli di vita proponga la civiltà moderna, ma ne sono divenuti in qualche misura partecipi”. Causa di questa nuova stagione della criminalità e del banditismo non erano dunque la povertà e sé, ne l’arretratezza in sé, ma il fatto che la Sardegna vivesse una difficile età di confine e i contrasti e le incongruenze che questa età segnavano.
Ma se l’individuazione delle cause non suscitava dissensi troppo radicali, non era così per la scelta dei rimedi da adottare per ristabilire in Sardegna ragionevoli condizioni di sicurezza pubblica. Vi era infatti chi sollecitava misure di carattere eccezionale, in particolare l’estensione a quest’isola delle leggi alle quali in Sicilia si affidava  la lotta contro la mafia e una più decisa opera di repressione nella quale si sarebbero dovute impiegare massicce forze di polizia. Altri - i gruppi politici più avanzati, particolare - erano convinti che la criminalità non sarebbe stata definitivamente sconfitta finché non si fosse avviata una seria politica intesa a modificare profondamente l’ambiente sociale dal quale nasceva; la repressione, poi, non richiedeva provvedimenti straordinari, ma un impiego più razionale degli strumenti di polizia esistenti (la distribuzione capillare delle caserme dei carabinieri, per esempio), una più attenta scelta degli uomini, una più puntuale applicazione della legge che avrebbe avuto il merito di evitare le lunghe carcerazioni ai quali molti sfuggivano dandosi alla latitanza.
Le cose erano a questo punto, quando venne in Sardegna, richiamatovi dalla gravità della situazione che si era creta, il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani, che per più giorni ascoltò i giudizi, le richieste e i suggerimenti di quanti erano investiti di particolari responsabilità o della tutela di specifici interessi (dal presidente della regione ai dirigenti delle forze di polizia, ai rappresentanti degli agricoltori e allevatori) e perlustrò con cura minuziosa la parte della Sardegna più direttamente interessata dalla criminalità e dal banditismo.
Gli accadde, fra l’altro, di giungere alle porte di Ollolai poco dopo che proprio in quel luogo, accanto a una chiesetta solitaria, era stato catturato un latitante - Giovanni Bussu - al termine di un lungo conflitto a fuoco; ancora sullo spiazzo intorno alla chiesa erano sparsi centinaia di bossoli di mitra. E nella piana di Ottana si soffermò nel luogo dove poche ore prima era stato assassinato un pastore; parlò, anzi, con un giovane che del delitto era stato testimone. Quando ripartì sapeva certamente non meno di quanto un ministro degli Interni dovesse sapere. All’ispezione di Taviani non seguirono i provvedimenti straordinari nei quali qualcuno aveva sperato e che altri avevano temuto. Ci si limitò, invece, a richiamare in vita la vecchia legge sul domicilio coatto (sul confino di polizia, per esser chiari), aggiornata in modo che chi veniva sottoposto al giudizio delle speciali commissioni non fosse privato almeno del diritto alla difesa.
Accadde che il 12 settembre - era un’assolata domenica mattina; per le strade della città i passanti non erano molto numerosi -
Graziano Mesina evadesse dal carcere di San Sebastiano; distratte le guardie che sorvegliavano i detenuti nel cortile durante l’ora d’aria, con un balzo riuscì a raggiungere la sommità del muro di cinta e un altro balzo lo portò giù in strada. Nella fuga lo seguì un altro carcerato, lo spagnolo Miguel Atienza, approdato in Sardegna su una barca rubata, dopo aver disertato in Corsica dalla legione straniera. I due fuggiaschi corsero per un brevissimo tratto, poi, confusi tra i passanti, attraversarono la piazza d’Italia, salirono su un taxi e si fecero portare ai confini della città e lì, poiché non avevano il denaro per pagare la corsa, ripresero la fuga e in pochi istanti scomparvero.
Ebbe inizio quella mattina una vicenda nella quale non mancarono i giorni cruenti né gli aspetti picareschi (vicenda che fu breve per lo spagnolo, bandito improvvisato, ucciso in un conflitto nell’estate del 1967; più lunga per l’orgolese, catturato dalla polizia nella primavera del 1968), ma che ebbe l’effetto di far pesare una volta di più su buona parte della Sardegna sia l’arroganza temeraria dei banditi, sia i rigori di una repressione che fu tra le più dure e spregiudicate che i sardi, banditi oppure no, abbiano mai dovuto subire.
Qui è appena il caso di dire che la pur breve esistenza di Graziano Mesina, che aveva allora ventisei anni, era stata in larga misura dominata -
ma sarebbe giusto dire, piuttosto, governata - dalla tetra mitologia della violenza che ancora conservava in qualche parte della Sardegna autorità e prestigio. Ragazzo, era stato arrestato più d’una volta perché trovato armato di pistola, oppure per aver devastato la casa d’un tale che gli aveva ucciso il cane. Tuttavia non si sarebbe forse di là da quelli che vengono considerati atti di delinquenza minuta, se nel 1960 i suoi fratelli non fossero stati accusati, incolpevoli, del sequestro e dell’assassinio del commerciante Pietrino Crasta, e non si fossero trovati poi coinvolti nel viluppo di vendette che a quella vicenda erano seguite.
Nel 1962 il giovane, detenuto nelle carceri di Nuoro, dovette essere ricoverato in ospedale.
Da lì riuscì a fuggire eludendo la sorveglianza dei carabinieri di guardia; tornò ad Orgosolo (da poco era stato assassinato uno dei suoi fratelli) e una sera, armato di mitra, irruppe in un bar e uccise un giovane appartenente al clan che riteneva nemico della sua famiglia. Atterrato con un colpo di bottiglia da un amico dell’ucciso, fu arrestato e condannato a trent’anni.
Ora era di nuovo libero, forte del prestigio che gli veniva dalle sue fughe e dal suo passato di ribelle. Parve che in lui trovassero un punto di coagulo (ma anche un comodo riparo) gli impulsi violenti che da tempo avevano ripreso a manifestarsi. Non tardò ad essere il capo riconosciuto d’una bizzarra banda che aveva come gregari pastori, latitanti e no, ma alla quale si associavano, non soltanto occasionalmente, personaggi estranei al mondo rurale barbaricino.
Ebbe inizio così una stagione convulsa (le cui vicende non potranno essere imputate tutte a Mesina e ai suoi) che sembrò riportare la Barbagia ai tempi del grande banditismo; frequenti i conflitti fra latitanti e forze di polizia, non pochi gli omicidi, singolarmente numerosi i sequestri di persona (nel 1965 ve ne era stato uno soltanto, ma nel 1966 furono undici, altrettanti nel 1967, 12 nel 1968).
Vi era di più, poiché Mesina incarnava, senza merito proprio, la figura del bandito-
ribelle e tanto bastava a suscitare intorno a lui oscuri fermenti di rivolta. Vi fu addirittura chi, come Giangiacomo Feltrinelli da un lato, i servizi segreti dall’altro, ritenne che il giovane bandito si potesse porre a capo di una sollevazione di segno politico.
Vi era, insomma, quanto occorreva perché la situazione che si era creata in Sardegna venisse giudicata altamente pericolosa, tanto da giustificare una decisa opera di repressione. Che non tardò a essere avviata, infatti. Nei primi giorni del gennaio 1967 sbarcò nell’isola un migliaio d’uomini appartenenti a reparti speciali della polizia e dei carabinieri (i “baschi blu”).
Che così fosse che il 26 marzo 1968, quando Graziano Mesina fu catturato da una pattuglia della polizia stradale (ma più d’uno sospetta che si fosse volontariamente consegnato agli agenti): quando fu condotto in manette alla questura di Nuoro, il bandito trovò in strada, ad attenderlo, una piccola folla di giovani che lo applaudirono a lungo. Sarebbe ingiusto, però, non aggiungere che con il suo arresto parve esaurirsi la stagione del banditismo che egli aveva animato o della quale era stato il pretesto.
Se nel 1968 i sequestri di persona erano stati dodici, l’anno successivo si ridussero a tre, e furono sette nel 1970, sei nel 1971, di nuovo tre nel 1972.
Poi il loro numero riprese ad aumentare : il sentore di ricchezza che aleggiava sulla Costa Smeralda e intorno alle giovani industrie (floride o no che fossero nella realtà) costituiva una tentazione alla quale non tutti erano insensibili. E per rapire un uomo, una donna, un bambino, tutto sommato, non era neppure indispensabile essere banditi.
Associazione Baschi Blu
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